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Premio “Giuseppe Sperduti” 2007-2002

PREMIO GIUSEPPE SPERDUTI 2007

Tema dell’edizione 2007: “VITA PRIVATA E TERRORISMO”

I telefoni fissi e il cellulare di Tizio sono intercettati – su disposizione del pubblico ministero, previa autorizzazione del giudice per le indagini preliminari – nell’ambito di un procedimento penale avviato nei suoi confronti sulla base del sospetto di aver intrapreso l’organizzazione, in Italia, di attentati diretti presumibilmente contro cittadini e sedi istituzionali del proprio paese di origine (lo stato extraeuropeo di Santa Fè), nonché del sospetto di raccogliere e distribuire denaro al fine di fare organizzare e svolgere nel proprio paese attentati di varia natura e comunque di organizzare l’opposizione al governo in carica in Santa Fè. È, d’altronde, notoria l’avversità di Tizio al regime politico di quello stato, che dal canto suo vieta manifestazioni di dissenso e la formazione di partiti politici di opposizione al governo. Tizio, inoltre, come risulta sempre dalle intercettazioni, si definisce spesso «fuggitivo» dal suo paese, pur se non ha mai chiesto asilo politico in Italia anche a causa del fatto che la sua residenza in questo paese è legittima in quanto egli è dotato di regolare permesso di soggiorno.

Tra le conversazioni intercettate ve ne è una con Caia, nella quale i due si scambiano informazioni circa la qualità e il costo di talune pellicce presso un noto pellicciaio. In seguito a ciò vengono intercettate, secondo la stessa procedura adottata nei confronti di Tizio, anche le comunicazioni telefoniche di Caia.

Dopo qualche giorno Caia si reca dal pellicciaio in questione, accompagnata da Tizio e lì sopraggiunge Mevio, ambasciatore, regolarmente accreditato presso il Ministero degli esteri italiano, dello stato di Ruritania (paese parte della Convenzione Europea sui Diritti dell’uomo e membro del CdE) notoriamente vicino,se pure non ufficialmente, alle posizioni politiche ostili al regime in essere nello stato di Santa Fè. Caia e Tizio, assoggettati anche a intercettazione ambientale nei locali della pellicceria, acquistano effettivamente una pelliccia del valore di € 80.000 per la quale il pellicciaio offre uno sconto del 15%, pari a € 12.000, che vengono versati a Tizio in contanti, mentre il prezzo intero è pagato da Mevio con un assegno.

In una susseguente, breve conversazione telefonica su chiamata ricevuta da Mevio su un apparecchio cellulare italiano, che solo successivamente in sede processuale si accerterà appartenergli, Caia, tutt’ora intercettata, ringrazia calorosamente Mevio per il regalo, lasciando intendere di volergli rinnovare i ringraziamenti durante un prossimo incontro, da programmare per la settimana successiva presso l’abitazione privata di leie del marito, in quei giorni assente per motivi di lavoro. Anche l’incontro dei due viene a sua volta registrato, mediante intercettazione ambientale, a sua volta disposta dal pubblico ministero previa autorizzazione del g.i.p., come quella presso la pellicceria.

Durante detto incontro, Mevio confida a Caia che la somma risultante dallo sconto,è destinata ad aiutare i familiari di Tizio in patria, assoggettati a restrizioni di libertà a causa della loro ostilità al governo in carica,e, per il loro tramite, ad aiutare un partito politico di cui Tizio è membro (suscettibile addirittura di arresto e condanna alla pena di morte) perchè ostile al governo di Santa Fè e costretto alla clandestinità, anche se – a detta di Mevio – sia il partito politico che Tizio stesso siano del tutto estraneo ed alieni da atti di violenza. Dalla registrazione dell’incontro traspaiono altresì una serie di particolari circa un rapporto sentimentale tra Caia e Mevio.

Esaminate le trascrizioni delle registrazioni ottenute dalle intercettazioni, il p.m. dispone il fermo di Tizio ritenendolo gravemente indiziato di partecipazione ad un’associazione con finalità di terrorismo ex articolo 270 bis c.p.; il fermo, tuttavia, non è convalidato dal g.i.p. nell’udienza convocata al riguardo, sulla base di una valutazione di scarsa consistenza degli indizi a carico di Tizio. Successivamente e dopo l’entrata in vigore della l. 20 novembre 2006, n. 281 di conversione del DL22 settembre 2006 n.259, Tizio stesso sarà oggetto di una sentenza di non luogo a procedere, all’esito di un’udienza preliminare che dimostrerà l’infondatezza dell’imputazione contestata dal p.m.. Ciò non ostante, su ordine del Ministro degli interni, Tizio viene espulso dall’Italia in applicazione dell’articolo 3 della l. .31.7.2005 n. 155.

Nel frattempo, però, sono stati pubblicati, da alcuni giornali, ampi stralci di trascrizioni dei nastri registrati durante le operazioni di intercettazione sulle utenze telefoniche di Tizio e di Caia: tra essi, oltre a quelli relativi alla versione data da Mevio circa la destinazione della somma versata dal pellicciaio a Tizio, anche quelli relativi ai rapporti personali tra Caia e Mevio.

Dopodiché Mevio è richiamato in patria, dove viene sospeso dal servizio diplomatico per indegnità (a motivazione del qual provvedimento vengono addotte, da un lato l’esigenza di allontanare il sospetto che la Ruritania partecipi attivamente al finanziamento di organizzazioni antigovernative in Santa Fè, dall’altro la contrarietà del suo privato comportamento al decoro dello stato di Ruritania). Contemporaneamente la moglie di lui,Calpurnia, avendo appreso del comportamento del marito, chiede per tale motivo il divorzio per colpa grave di Mevio,

A seguito di tutto ciò, Tizio, Caia e Mevio presentano denuncia contro gli ignoti autori della trasmissione delle trascrizioni agli organi di stampa, e contro gli organi di stampa medesima. Quindici giorni dopo la presentazione della denuncia, il p.m. ne chiede l’archiviazione, che, dopo altri quindici giorni, viene disposta con decreto dal g.i.p.

Successivamente i tre presentano ricorso alla Corte europea dei diritti umani adducendo:

Tizio, violazione tra l’altro dell’art. 2 Cedu, per il rischio che la divulgazione delle conversazioni da lui e da Mevio avute con Caia inducano le autorità di Santa Fé ad aprire, contro di lui (in contumacia) e contro i suoi familiari tuttora residenti nel territorio di quello stato, un procedimento penale per attentato alla sicurezza nazionale, punito con la pena di morte ancora Tizio, violazione tra l’altro dell’art. 8 Cedu per la divulgazione di conversazioni tali da recare pericolo per la vita sua e dei suoi familiari e da ingenerare ingiusti e ingiustificati sospetti di terrorismo nei suoi confronti: conversazioni la cui conoscenza avrebbe comunque dovuto rimanere circoscritta nell’ambito del procedimento instaurato contro di lui, nonché per la mancata avvenuta cancellazione o segretazione delle parti di conversazione non rilevanti per i procedimenti e comunque illegittimamente acquisite.

Sempre Tizio, violazionetra l’altro del combinato disposto dell’art. 5 e dell’art. 8 Cedu, a causa del fermo sofferto in conseguenza di intercettazioni non rispondenti ai requisiti voluti dal secondo tra i due articoli e degli articoli 10, 13 e 5.1f;
Caia, violazione tra l’altrodell’art. 8 Cedu a causa della divulgazione di conversazioni attinenti alla sua vita privata, non aventi relazione con l’oggetto del procedimento penale instaurato contro Tizio e tali, in particolare, da essere fattore di una crisi nei suoi rapporti con il coniuge
Mevio, violazionetra l’altro dell’art. 8 Cedu per le ragioni analoghe a quelle addotte da Caia e inoltre per violazione della riservatezza diplomatica nella misura in cui risultano essere state intercettate anche conversazioni garantite dalle norme in materia di immunità diplomatica.

Il Governo italiano si difende su tutti i punti, con particolare riferimento alla tempistica delle trascrizioni delle intercettazioni e al fatto che le conversazioni tra Mevio e Caia non rientrerebbero tra le attività garantite dall’immunità diplomatica.

Le norme rispetto alle quali si suppone i ricorrenti intendano agire, sono da considerarsi solo indicative, restando i concorrenti liberi di individuare le ulteriori norme che a loro giudizio sono state violate.

PREMIO GIUSEPPE SPERDUTI 2006

Tema dell’edizione 2006 “E LA MOGLIE RESTO’ SOLA…”

X, cittadino di uno Stato a prevalente religione islamica, è regolarmente residente in una città italiana, dove svolge da vari anni un’attività commerciale consistente nella gestione di un piccolo, ma accorsato ristorante, specializzato in piatti “etnici”. È coniugato e ha due figli. Poiché la moglie non lavora, l’attività di X rappresenta l’unica fonte di sostentamento della famiglia. Per giunta, il secondogenito, di soli cinque anni, è affetto da una grave malattia congenita che richiede cure costanti e particolarmente dispendiose.

Negli ultimi anni il ristorante di X, pur continuando ad attirare una numerosa clientela italiana, è diventato sempre più punto d’incontro di “extracomunitari”, che condividono con X la religione islamica. Non mancano “irregolari” di passaggio, che talvolta si trattengono qualche giorno presso X e a favore dei quali lo stesso organizza la raccolta di collette per aiutarli in momenti critici.

Spesso, a fine serata, X resta a chiacchierare con amici e avventori e, in queste occasioni, sovente si lascia andare a espressioni anche violente nei confronti di politici italiani e occidentali o di “opinionisti”, saggisti o giornalisti, che qualifica come razzisti e nemici dell’Islam.

All’alba del 1° settembre X viene prelevato da agenti di polizia. Solo dopo varie ore la moglie apprende che nei suoi confronti è scattata l’espulsione ai sensi dell’art. 3 del d.l. 27 luglio 2005 n. 144 (c.d. decreto Pisanu contenente misure urgenti per il contrasto al terrorismo internazionale), convertito dalla l. 31 luglio 2005 n. 155, e ciò in quanto “vi sono fondati motivi di ritenere che la sua permanenza nel territorio dello Stato possa in qualsiasi modo agevolare organizzazioni o attività terroristiche, anche internazionali” (art. 3, 1° comma, del citato d.l.).

Rinviato X nel Paese di origine, la moglie non riesce più a mettersi in contatto con lui. Apprende infine, tramite canali informali, che egli è stato arrestato. La moglie di X ricorre allora alla Corte europea dei diritti umani lamentando, anche in nome dei figli minori, la violazione da parte italiana dell’art. 8 CEDU, sotto il profilo del rispetto della vita familiare, la violazione del rispetto dei propri beni, anche in nome del marito (art. 1 Prot. n. 1); e, in nome di X, e la violazione del diritto alla tutela giudiziaria (artt. 6 e 13 CEDU), della libertà di espressione (art. 10 CEDU) e del diritto alle garanzie procedurali in caso di espulsione (art. 1 Prot. n. 7).

La donna osserva, fra l’altro, che l’art. 3 del decreto Pisanu non garantisce un adeguato controllo giudiziario del provvedimento di espulsione, esclude la sospensione di tale provvedimento e consente la sospensione del procedimento dinanzi al TAR (in caso di impugnazione del provvedimento) per ragioni di segreto d’indagine o di Stato. Lamenta, inoltre, che la sua famiglia è stata distrutta a seguito dell’espulsione di X; che i suoi figli, specie quello malato, hanno subito un trauma gravissimo; che, non essendo la ricorrente in grado di continuare la gestione del ristorante del marito, lei e la sua famiglia sono prive di ogni mezzo di sussistenza.

La difesa del Governo italiano si sviluppa affermando, anzitutto, che il ricorso è irricevibile; riguardo agli artt. 6, 10 e 13 CEDU, 1 Prot. n. 1 e 1 Prot. n. 7 la ricorrente, infatti, non potrebbe considerarsi “vittima” di alcuna violazione; inoltre, rispetto a tutte le violazioni denunciate, non sarebbero state esaurite le vie di ricorso interno. Nel merito sostiene che il provvedimento di espulsione di X è conforme alla CEDU, in quanto misura necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati e alla protezione dei diritti altrui.

PREMIO GIUSEPPE SPERDUTI 2005

PREMIO GIUSEPPE SPERDUTI 2005

Tema dell’edizione 2005: “LIBERTA’ DI STAMPA E COOPERAZIONE EUROPEA IN AMBITO PENALE”

1. I ricorrenti sono :
– Tizio, giornalista di professione, cittadino dello Stato A, il quale svolge attività giornalistica anche per giornali editi nello Stato B;
– Caio, direttore responsabile di un giornale pubblicato nello Stato B che agisce sia in nome proprio che in veste di rappresentante legale della società editrice del giornale.
2. Il ricorso è diretto contro lo Stato A e lo Stato B, entrambi membri dell’Unione europea e parti contraenti della Convenzione europea dei diritti umani (CEDU).
3. Il 20 gennaio 2004 era stato pubblicato in contemporanea su “Io so tutto”, giornale edito nello Stato A, e su “La verità”, edito nello Stato B, un articolo che forniva dettagliate informazioni su operazioni finanziarie di due società industriali la società Ipsilon, operante nello Stato B, e lasocietà Doppiovù, operante nello Stato A. Il ricorrente, autore dell’articolo, sosteneva che il contenuto dello stesso si basava su fonti e documenti strettamenti confidenziali riguardanti progetti industriali e contatti riservati fra i dirigenti delle due società. Dalle informazioni contenute nell’articolo il giornalista deduceva che la società Ipsilonincontrava notevoli difficoltà di bilancio dovute a scelte industriali non oculate e che, pertanto, i dirigenti di quest’ultima avevano allacciato contatti segreti con una società dello stesso settore operante nello Stato A, la società Doppiovù, per pervenire ad una fusione, mediante assorbimento da parte di quest’ultima. Cio’ avrebbe inevitabilmente comportato lo spostamento di parte della produzione da impianti della società Ipsilon, situati nelloStato B, ad impianti della società Doppiovù, situati nello Stato A. Per di più, il titolo della società Ipsilon, quotato in borsa, aveva subito una notevole perdita del proprio valore ed acquisti massicci di tali titoli erano stati operati da parte di una società finanziaria appartenente al gruppoDoppiovù. Tale gruppo, peraltro, aveva partecipazioni azionarie nel capitale di entrambi i giornali: “Io so tutto” e “La verità”.
4. In un contesto di gravi conflitti sociali dovuti ad operazioni analoghe interessanti differenti società, sempre situate nello Stato B, il Ministro della giustizia dello Stato B chiedeva alla procura della Repubblica di svolgere accurate indagini al fine di accertare se fossero ravvisabili, nell’articolo pubblicato su “La verità”, estremi di reati perseguibili di ufficio.
5. A seguito di tali indagini veniva iniziato un procedimento penale contro il ricorrente, Tizio, ed il direttore responsabile della testata, Caio, per i reati di aggiotaggio, truffa e diffusione di notizie false, esagerate e tendenziose atte a menomare la fiducia del pubblico nella società Ipsilon. Nel corso di tale procedimento l’autorità giudiziaria procedeva ad una perquisizione nella sede del giornale “La verità” ed al sequestro di documenti riguardanti il contenuto dell’articolo redatto dal ricorrente. Veniva inoltre ingiunto al signor Caio e al signor Tizio di rivelare le fonti delle informazioni su cui questi si era basato per redigere l’articolo oggetto del procedimento. Sia Caio che Tizio rifiutavano di rivelare alcunché, affermando che tale ingiunzione avrebbe violato la libertà di stampa. Caio sosteneva, inoltre, che la perquisizione ed il sequestro di documenti avrebbero violato il diritto al rispetto del domicilio e della corrispondenza del giornale.
6. Nel corso dell’istruttoria la posizione del ricorrente Tizio veniva stralciata per i reati più gravi, mentre veniva condannato (il 20 maggio 2004) al pagamento di un’ammenda per non aver ottemperato all’ingiunzione di rivelare le fonti delle informazioni. La condanna veniva confermata sia in appello (20 giugno 2004) che in cassazione (20 novembre 2004). Intanto, il procedimento penale per gli altri reati a lui ascritti veniva sospeso.
7. Il ricorrente Caio, invece, veniva rinviato a giudizio davanti al tribunale n° 1 della capitale dello Stato B e condannato il 20 giugno 2004, per i reati a lui ascritti e per non aver ottemperato all’ingiunzione rivoltagli circa le fonti di informazione, ad una pena complessiva di tre anni e sei mesi ed al pagamento di un’ammenda. La condanna veniva confermata in appello, il 20 settembre 2004, ed in cassazione, il 20 dicembre 2004.
8. Nessun procedimento penale di alcun tipo fu iniziato nello Stato A né nei confronti di Tizio né nei confronti di Caio. Si noti che il Pubblico ministero è, in tale Stato, costituzionalmente indipendente dal potere esecutivo.
9. Il 21 dicembre 2004, un mandato d’arresto europeo veniva spiccato nei confronti di Tizio e, in base ad una normativa vigente fra i due Stati, veniva chiesta la consegna di Tizio per lo svolgimento del procedimento a suo carico nello Stato B. La pena edittale per il reato più grave ascritto a Tizio è di più di tre anni. Lo stesso giorno, il ministro della giustizia dello Stato B trasmetteva il mandato al suo omologo dello Stato A. Il 10 gennaio 2005 il mandato veniva convalidato dalla competente autorità giudiziaria dello Stato A; successivamente, la convalida veniva confermata negli ulteriori gradi di giudizio (15 e 20 gennaio 2005).
10. Il 21 gennaio 2005, Tizio e Caio presentano ricorso alla Corte europea dei diritti umani contro lo Stato B e lo Stato A.
11. Nel ricorso da lui diretto esclusivamente contro lo Stato B, Caio sostiene : – che sia stato violato il principio dell’equo processo (art. 6 CEDU), dato che gli elementi di prova raccolti nel procedimento non sarebbero stati sufficienti a provare la sua colpevolezza, sia lui che Tizio essendosi rifiutati di rivelare le fonti delle informazioni; sarebbero stati altresi’ conculcati il diritto al silenzio ed il principio secondo cui nessuno è tenuto a provare la propria innocenza (nemo tenetur se detegere); -che sia stato violato il diritto della società editrice del giornale al rispetto del domicilio e della corrispondenza, violazione derivante dalla perquisizione e dal sequestro di documenti (art. 8 CEDU); -che sia stata violata la libertà di stampa (art. 10 CEDU), dato che l’ingiunzione di rivelare le fonti giornalistiche sarebbe in contrasto con l’orientamento giurisprudenziale della Corte europea dei diritti umani.
12. Nel ricorso da lui diretto contro lo Stato B, Tizio sostiene : -che il procedimento penale a suo carico per i reati stralciati non avrebbe potuto essere equo (art. 6 CEDU), dato che per gli stessi fatti Caio era già stato condannato; -che sia stata violata la libertà di stampa (art. 10 CEDU), dato che l’ingiunzione di rivelare le fonti giornalistiche sarebbe in contrasto con l’orientamento giurisprudenziale della Corte europea dei diritti umani.
13. Nel ricorso da lui diretto contro lo Stato A, Tizio sostiene, invocando l’art. 1 CEDU, che le autorità di tale Stato, nel dare esecuzione al mandato d’arresto, si sarebbero rese responsabili di una violazione dei diritti sanciti dalla CEDU e in particolare: – del principio di legalità garantito in materia penale dall’art. 7 CEDU, poiché i reati che gli erano ascritti nello Stato B non erano previsti come tali nello Stato A e nessun procedimento era stato promosso a suo carico in tale Stato; – del diritto ad un equo processo garantito dall’art. 6 CEDU, poiché il procedimento penale subito nello Stato B era viziato dalla circostanza che il ministro della giustizia dello stesso Stato B aveva richiesto alla procura della Repubblica di svolgere un’indagine; – della libertà di stampa garantita dall’art. 10 CEDU per effetto delle azioni perpetrate dalle autorità dello Stato B.

PREMIO GIUSEPPE SPERDUTI 2003-2004

Tema dell’edizione 2003-2004: “PROTEZIONE DELLA PROPRIETA'”

1. X è un cittadino dello Stato A che attualmente risiede con la sua famiglia nella capitale di tale Stato. Nel 1990, egli acquistava un terreno di 5 ettari situato in prossimità del confine fra lo Stato A e lo Stato B. Tale terreno veniva parzialmente adibito a cultura agricola, producendo un reddito di circa € 1.500,00 al mese.
2. Nel 1992, X otteneva dalle competenti autorità amministrative locali una concessione edilizia per la costruzione di un immobile ad uso abitativo sulla parte del terreno che era rimasta inutilizzata. Nel 1993, X completava i lavori di costruzione dell’immobile che aveva un valore di mercato di circa €100.000,00: X e la sua famiglia si trasferivano quindi nella nuova abitazione per viverci stabilmente.
3. Alla fine del 1993, insorgeva una controversia fra lo Stato A e lo Stato B sulla sovranità di una porzione di territorio situato lungo il confine (che comprendeva l’intero terreno appartenente a X); tale area veniva temporaneamente occupata dalle forze militari dello Stato B. Nel frattempo, X e la sua famiglia si erano trasferiti nuovamente nella loro abitazione nella capitale dello Stato A. La casa situata sul territorio occupato dallo Stato B veniva saccheggiata e seriamente danneggiata dalle forze armate di tale Stato.
4. Nel marzo del 1994, i due Stati raggiungevano una soluzione pacifica della controversia, stipulando un trattato internazionale in forza del quale lo Stato A accettava di cedere allo Stato B la porzione di territorio contestata e riceveva da quest’ultimo una somma forfetaria di € 10.000.000,00. In seguito, i beni immobiliari presenti sul territorio occupato venivano nazionalizzati dallo Stato B.
5. Entrambi gli Stati sono parti della Convenzione europea dei diritti umani e del Protocollo n. 1 alla stessa, e non hanno opposto alcuna riserva.
6. All’inizio del 1995, lo Stato A adottava una “Legge sulla compensazione”, la quale riconosceva il diritto di coloro che erano proprietari di terreni situati sulla porzione di territorio contestata ad ottenere una riparazione pecuniaria per la cessione di tali terreni allo Stato B pari al 70% del loro valore agricolo attuale.
7. Dopo aver ricevuto una somma complessiva di € 20.000,00 in base ai criteri stabiliti dalla “Legge sulla compensazione”, X iniziava un giudizio civile dinanzi al competente Tribunale di prima istanza nei confronti del Governo dello Stato B, al fine di ottenere la riparazione pecuniaria integrale della perdita sofferta a causa degli eventi sopra descritti, che egli quantificava in complessivi € 120.000,00 (di cui € 100.000,00 per la casa ed € 20.000,00 per il valore residuo del terreno non coperto dalla Legge sulla compensazione). In particolare, invocando la Convenzione europea ed il suo Protocollo n.1, X denunciava l’incompatibilità dei criteri previsti dalla “Legge sulla compensazione” con il suo diritto al pacifico godimento dei beni, sostenendo, inter alia, che:
– la occupazione e la nazionalizzazione da parte dello Stato B del terreno di sua proprietà situato nella porzione di territorio contestata equivaleva ad una “privazione di beni” ai sensi della seconda frase dell’art. 1 comma 1 del Protocollo n. 1;
– il Governo dello Stato B doveva considerarsi l’unico responsabile per la perdita dei beni del ricorrente;
– la compensazione pagata dallo Stato A in base alla Legge del 1995 era calcolata sul mero valore agricolo del terreno e non teneva conto del maggior valore di quella porzione del suo terreno per la quale egli aveva regolarmente ottenuto la concessione edilizia: nel suo caso, il reale valore di mercato complessivo del terreno era di € 40.000,00 invece di € 28.571,42 (cifra quest’ultima corrispondente al valore agricolo su cui era stato calcolato la compensazione del 70%);
– nessuna compensazione era stata pagata per la casa di X che aveva un valore di mercato di € 100.000,00;
– il valore complessivo dei possedimenti di X nell’area contestata ammontavano a €140.000,00, ma egli era riuscito a ricevere in base alla Legge sulla compensazione solamente € 20.000,00, cioè meno del 14%;
– pertanto, i criteri legali per la determinazione della compensazione rappresentavano, ad avviso di X, un’ingerenza sproporzionata nel pacifico godimento dei suoi beni e davano luogo ad un trattamento discriminatorio rispetto a coloro che erano proprietari di terreni per cui non era stata rilasciata alcuna concessione edilizia e che non avevano altri beni collocati sul terreno;
8. Il ricorso di X veniva respinto dal Tribunale di prima istanza dello Stato B sulla base, fra l’altro, dei seguenti argomenti:
– il Governo dello Stato B non poteva considerarsi responsabile di una “privazione di beni” nel caso di specie, poiché con l’accordo del marzo 1994 lo Stato B aveva pagato allo Stato A la somma di € 10.000.000,00, con il suo specifico consenso sulla quantificazione della compensazione;
– nel caso di specie, inoltre, nessuna compensazione era dovuta per la casa poiché essa era stata gravemente danneggiata durante il conflitto bellico prima che il territorio fosse formalmente ceduto allo Stato B e da esso nazionalizzato;
– in ogni caso, X avrebbe dovuto instaurare un giudizio contro il Governo dello Stato A al fine di ottenere la riparazione per la perdita dei suoi beni, poiché lo Stato A aveva prestato il consenso nella determinazione e quantificazione del risarcimento del danno e provveduto ad adottare la legge sulla compensazione;
– X possedeva molti altri terreni ed immobili dove poteva vivere con la sua famiglia, non si trovava in difficoltà finanziarie e, pertanto, il fatto che egli fosse riuscito a recuperare solamente il 70% del valore agricolo del suo terreno non costituiva, nel caso di specie, un’ingerenza illegittima con il suo diritto al pacifico godimento dei beni;
– in ogni caso, X non poteva legittimamente invocare dinanzi ai tribunali nazionali la Convenzione europea ed il suo Protocollo n.1, poiché tali strumenti internazionali erano stati superati da un accordo successivo tra lo Stato A e lo Stato B, concluso nel marzo 1994 e ratificato da entrambi gli Stati nello stesso anno.
9. La sentenza del Tribunale di prima istanza veniva, successivamente, confermata dalla Corte di Appello ed infine dalla Corte Suprema dello Stato B. Entro sei mesi dalla decisione interna definitiva, il ricorrente decideva, quindi, di rivolgersi alla Corte europea dei diritti umani per denunciare la violazione da parte dello Stato B della Convenzione europea e del suo Protocollo n.1.

PREMIO GIUSEPPE SPERDUTI 2002-2003

Tema dell’edizione 2002-2003: “L’ESPULSIONE DELLO STRANIERO NEL RISPETTO DEI DIRITTI UMANI'”

1. X è una donna di nazionalità afgana, sposata con un esponente della guardia militare talebana con cui viveva nella capitale Kabul e dal matrimonio con il quale era nato un figlio, Y. Successivamente alla caduta del regime talebano ed all’insediamento del nuovo governo di garanzia nazionale, il marito di X si era rifugiato con molti altri commilitoni in una zona di confine ancora fuori dal controllo del nuovo esercito regolare, dove si cominciava ad organizzare l’offensiva antigovernativa grazie anche al supporto di gruppi terroristici appartenenti alla rete di Al-Quaeda.
2. La moglie e il figlio di otto anni erano, invece, rimasti nella capitale afgana in seguito alla fuga del marito, perdendo ogni contatto con quest’ultimo. X veniva, quindi, sottoposta ad una serie di serrati interrogatori da parte delle autorità di polizia, che erano sicure di poter ottenere da lei una serie di informazioni utili concernenti la località in cui suo marito e altri soldati talebani si erano nascosti. Subendo continue pressioni e temendo rappresaglie nei confronti del figlio, per di più in gravi condizioni di salute a causa delle ferite riportate ad una gamba per l’esplosione di una mina, X riusciva a convincere un volontario italiano conosciuto nel un campo medico di Kabul dove il figlio veniva curato, a trovare il modo di farli uscire dall’Afghanistan.
3. La ricorrente (X) ed il figlio (Y), giunti in un Paese europeo, decisero di rifugiarsi in Italia. Il 10 maggio 2002, approdati sulle coste italiane con un’imbarcazione di fortuna insieme ad altri immigrati clandestini, X e Y venivano allocati in un centro di permanenza temporanea, dove le autorità procedevano alle operazioni di identificazione. Tuttavia, già il giorno successivo all’arrivo, Y veniva trasferito d’urgenza in una struttura ospedaliera specializzata, in quanto il lungo viaggio aveva aggravato le sue condizioni di salute, causandogli un’infezione. Nonostante le richieste di X di rimanere vicina al suo bambino, le autorità non le accordavano il permesso di allontanarsi dal centro di permanenza.
4. X chiedeva il riconoscimento dello status di rifugiato per lei e per il proprio figlio, adducendo a sostegno: 1) il timore di subire ulteriori pressioni e minacce da parte delle autorità facenti capo al nuovo governo afgano; 2) il timore di essere uccisa o soggetta a rappresaglie da parte degli oppositori talebani per evitare che essa rivelasse informazioni utili a rintracciare il loro nascondiglio; 3) la condizione di grave discriminazione in cui versavano le donne afgane anche dopo l’insediamento del nuovo governo e, in particolare, la negazione di molti diritti civili e politici; 4) l’impossibilità di assicurare in Afghanistan cure adeguate per il proprio figlio Y, specialmente dopo l’aggravarsi delle sue condizioni a causa del lungo viaggio sino in Italia.
5. La domanda veniva immediatamente trasmessa alla competente Commissione centrale per il riconoscimento dello status di rifugiato; questa, il 14 maggio 2002, provvedeva all’audizione di X e degli altri clandestini sbarcati con lei: i colloqui si svolgevano con l’ausilio di interpreti non professionisti per una durata di circa 10 minuti davanti ad un delegato della Commissione centrale.
6. Il 20 maggio 2002, X riceveva la comunicazione del diniego del riconoscimento dello status per lei e per il figlio con la seguente motivazione: “Dagli elementi assunti nel corso dell’audizione non emerge l’esistenza di un rischio concreto di persecuzione della Sig. X e dei suoi figli da parte di agenti statali in Afghanistan rilevante ai sensi dell’art. 1 della Convenzione di Ginevra sullo status di rifugiato. Né possono valere a giustificare il riconoscimento di tale status il timore, peraltro non comprovato, di una possibile vendetta da parte di suo marito e dei talebani, ovvero la generale condizione discriminatoria in cui versano le donne afgane. Quanto alle condizioni di salute di Y, non vi sono elementi che inducano a ritenere che, superato l’attuale stato critico dovuto al lungo viaggio, egli non possa ricevere cure adeguate nel proprio Paese o che, comunque, ciò sia sufficiente a renderlo eleggibile allo status di rifugiato”.
7. Contestualmente al diniego di tale status veniva notificato ad X anche il decreto di espulsione da attuarsi non appena il figlio fosse stato dimesso dall’ospedale in cui era ricoverato.
8. Il 22 maggio 2002, tramite l’avvocato di un’associazione a tutela dei rifugiati presente nel centro di accoglienza, X promuoveva dinanzi al competente tribunale ordinario un giudizio per il riconoscimento del diritto di asilo, chiedendo un provvedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c. per sospendere l’esecuzione del decreto di espulsione: in particolare, X sosteneva che il diniego dello status e l’espulsione di lei e di suo figlio si ponevano in contrasto con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, esponendo tutti loro al rischio di subire nel proprio Paese trattamenti inumani e degradanti. Il 30 maggio 2002, il giudice rigettava la domanda cautelare, riservandosi di decidere sul merito del ricorso: più specificamente, il giudice non riteneva che X ed i suoi figli fossero esposti ad un pericolo grave ed irreparabile se rimpatriati.
9. Nel frattempo, il provvedimento di diniego dello status ed il relativo decreto di espulsione erano stati impugnati anche dinanzi al competente tribunale amministrativo regionale, il quale, però, lo stesso 30 maggio 2002 negava la richiesta di sospensiva del decreto di espulsione e decideva di sospendere il giudizio di merito sino all’esito di quello instaurato dinanzi al giudice ordinario.
10. In stato di disperazione e non avendo più notizie da qualche giorno circa le condizioni di Y, X decideva di allontanarsi clandestinamente dal centro di accoglienza il 31 maggio 2002, recandosi all’ospedale dove il figlio era ricoverato. Non avendo documenti di identificazione il personale ospedaliero le impediva però di vedere il proprio figlio e, di fronte alle insistenze della donna, avvertiva le autorità di pubblica sicurezza, che, giunte sul luogo, verificavano la provenienza della donna e, dopo averla condotta in Questura, ne disponevano l’immediata espulsione dal territorio nazionale.
11. Venuto a conoscenza della situazione, il difensore di X proponeva ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo, chiedendo in via preliminare l’applicazione di una misura provvisoria ai sensi dell’art. 39 del Regolamento di procedura, affinché lo Stato italiano sospendesse l’espulsione di X e del figlio in attesa della decisione sul merito delle doglianze. Dopo un esame sommario della richiesta, il Presidente della Sezione della Corte europea, cui era stato assegnato il ricorso, disponeva in data 1° giugno 2002 la misura sospensiva richiesta, dandone comunicazione alle competenti autorità italiane alle ore 16:00. Ciò nonostante, alle ore 20:00 dello stesso giorno, X veniva consegnata alle autorità del Paese europeo dal cui territorio era fuggita verso l’Italia.
11. Il 20 giugno 2002, il tribunale nazionale ordinario, che aveva già respinto l’istanza cautelare, rigettava nel merito la domanda della ricorrente, rilevando in particolare come: 1) fosse infondato il rischio di subire persecuzioni da parte delle autorità governative afgane, in quanto gli interrogatori cui era stata sottoposta in precedenza rientravano nell’ambito di normali operazioni di polizia allo scopo legittimo di individuare le cellule terroristiche talebane; 2) non potesse rilevare l’ipotizzato timore di subire rappresaglie da parte del marito e dei talebani, anche perché la giurisprudenza italiana in materia di riconoscimento dello status di rifugiato esclude la rilevanza delle persecuzioni attuate da “agenti non statali”; 3) non fosse sufficiente l’esistenza in Afghanistan di una generalizzata condizione di misconoscimento dei diritti delle donne a giustificare la concessione del diritto di asilo; 4) le condizioni di salute del figlio non erano tali da far ritenere che, se rimpatriato, egli non avrebbe potuto ricevere cure sufficientemente adeguate e comunque non avrebbero giustificato l’attribuzione dello status di asilante né a lui né tanto meno alla madre. La sentenza non veniva impugnata, divenendo così definitiva.
12. Il 30 maggio 2002, il difensore di X ricorreva alla Corte europea denunciando la violazione dell’art. 3 (divieto di tortura e di trattamenti inumani o degradanti), in relazione al pericolo per X e i suoi figli di subire persecuzioni da parte delle autorità governative o dei ribelli talebani, nonché all’impossibilità od estrema difficoltà per Y di ricevere cure adeguate in Afghanistan con il rischio di gravi complicazioni; dell’art. 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), in relazione al fatto che X era stata allontanata coattivamente dal proprio figlio malato Y senza poter ricevere più sue notizie e senza sapere quando e come poterlo rivedere; dell’art. 13 (diritto ad un ricorso effettivo), in relazione all’assenza di effetto sospensivo automatico dei ricorsi proposti a livello nazionale; dell’art. 14 (divieto di discriminazione), in relazione alla condizione discriminatoria della donna in Afghanistan; e dell’art. 34 (ricorsi individuali), in relazione alla mancata ottemperanza da parte delle autorità italiane alla misura provvisoria disposta dal Presidente della Corte ai sensi dell’art. 39 del Regolamento di procedura della Corte. Il difensore della ricorrente richiedeva, altresì, di attivarsi presso le autorità del Paese europeo alle quali era stata consegnata, affinché questa non fosse rimpatriata in Afghanistan.
13. Il Governo italiano eccepiva, innanzitutto, l’irricevibilità del ricorso per mancato esaurimento dei rimedi interni, poiché la sentenza del giudice ordinario non era stata impugnata ed il ricorso alla Corte europea era stato presentato prima ancora che il tribunale amministrativo regionale si fosse pronunciato sulla legittimità del diniego dello status e del relativo decreto di espulsione, nonché l’irricevibilità della doglianza relativa all’art. 34 in ragione della natura non obbligatoria delle misure provvisorie ex art. 39 del Regolamento della Corte. Quanto, poi, al merito, il Governo italiano eccepiva l’infondatezza di tutte le doglianze proposte.Premio “Giuseppe Sperduti” Correttivi al testo del caso concernente “L’espulsione dello straniero nel rispetto dei diritti umani” La data posta all’inizio del punto 12 va letta “30 giugno 2002” anziché “30 maggio 2002”, così rispettando la progressione costantemente seguita in precedenza. Ed infatti, il punto immediatamente precedente, contrassegnato come punto 11, si riferisce alla data del 20 giugno 2002 (che rimane invariata), facendo a sua volta seguito alla data del I° giugno 2002, che figura nel punto antecedente, da intendersi come 10 bis.

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